sabato 22 gennaio 2011

L'area ex Lebole di Arezzo. Un quartiere non si costruisce tutto e subito

di Pietro Pagliardini
Sarà possibile esprimere un’opinione sull’area ex Lebole senza suscitare retro pensieri, in questo clima da avanzata campagna elettorale? Probabilmente no, ma vale la pena provarci.
Il Sindaco ha ragione: il problema deve essere risolto, l’immobilismo è la peggiore scelta. Ma il nodo vero sta nella mancanza di iniziative forti, a parte i così detti “volenterosi”, che però possono fornire una risposta quantitativamente limitata, circa un 10% del totale, e soprattutto qualitativamente scontata: commerciale, l’apparente soluzione a tutti i mali edilizi.

Diciamo la verità: se domani si facesse avanti un grande imprenditore che volesse farci una fabbrica da 1000 dipendenti, faremmo tutti salti di gioia e quell’area conserverebbe la sua destinazione senza drammi. Ma così non è. Trascuriamo le città della salute o i poli tecnologici, idee estemporanee basate su improbabili investimenti pubblici, cioè su carrozzoni senza futuro che non garantiscono niente, nemmeno alla proprietà.
E allora bisogna smetterla di ragionare in termini di salvifiche “funzioni” specialistiche e pensare a quell’area come ad una parte della città, da inglobare nel circuito urbano e da trattare come un problema urbanistico. Un’area dalle superfici enormi, non solo per Arezzo, che potrà essere attuata solo in tempi lunghi, in fasi successive e con grande flessibilità, per poter dare risposte alle esigenze che di volta in volta si presenteranno. Per fare questo, e senza voler sminuire la qualità del progetto presentato, va detto che quel progetto è inadatto allo scopo perché è rigido, una somma di oggetti architettonici immodificabili, adatto, ad esempio, ad un’unica grande azienda. La soluzione non sta, in prima battuta, nel progetto architettonico bensì in quello urbanistico che deve consistere nel disegno di una maglia stradale forte che permetta di collegare l’area a Pescaiola, a via Fiorentina e al centro; che crei macro-isolati regolari frazionabili e flessibili, che possano accogliere tutte le “funzioni” che caratterizzano una città, nessuna esclusa e che, con il tempo, con molto tempo probabilmente, possano dare origine ad un tessuto urbano vitale dal nome “quartiere Lebole”.

Un quartiere che cresca nel tempo e che venga assimilato dalla città esistente. E’ certamente difficile e l’esito non può che essere legato alle condizioni del mercato, non alle velleità dell’architetto e nemmeno a quelle della politica, ma l’importante è che il disegno urbano alla fine produca questo risultato. E’ una opzione questa che richiede le funzioni pubbliche, il commerciale diffuso, assolutamente necessario, la residenza, il direzionale, il verde e persino il produttivo, se richiesto. Una città vera, insomma, non un oggetto di design da realizzare “tutto subito”, per quanto bello appaia.

E’ una scelta economicamente vantaggiosa per la stessa proprietà perché consente la cessione a molti soggetti diversi e non ad un inesistente unico attore e permette investimenti modulati nel tempo, in base al mercato, isolato per isolato, invece di un unico, enorme investimento, pericoloso per la proprietà e per la città.

E’ una scelta intrinsecamente a favore dell’economia locale, senza rincorrere a dubbi protezionismi. Arezzo non può sostenere contemporaneamente la ex Lebole, la Unoaerre e la Cadorna, tre investimenti unitari da oltre mezzo milione di metri cubi, più o meno 400 milioni di euro; nessuno può ragionevolmente crederlo.
E’ una scelta che non espande la città, che la densifica, che la rende migliore e che redistribuisce ricchezza su una più larga base locale e sociale.


pubblicato su La Nazione, 16 Dicembre 2010, p. 2

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